Sai quando ti viene difficile spiegare o meglio cercare di fare capire a chi ti legge, quanto importante é stato un determinato momento, una situazione particolare che magari ha improvvisamente cambiato il corso di una parte della tua vita?
Ecco Shu é una di quelle “cose” difficili da spiegare.
Shu Miyagoshi é uno degli incontri con uomini straordinari che ho avuto la fortuna di conoscere nella mia vita professionale e privata. Shu é il deus ex machina del progetto bmac.
Shu lavorava come general manager in Matsuzaki ed ebbi la fortuna di conoscerlo negli ultimi anni di importazione esclusiva del marchio in Italia. Si occupava di tutto, ma veramente di tutto in azienda in Giappone. Dall’export ai problemi interni, alla produzione ed ai rapporti con il personale. Shu era quel genere di persona che ogni imprenditore, proprietario di azienda di non importa quale dimensione ,si augurerebbe di avere al proprio fianco. Potevi essere certo che con Shu tutto sarebbe filato per il verso giusto. Shu aveva quella propensione naturale nel fare andare tutto nel migliore modo possibile accollandosi notti di lavoro insonne e meeting incessanti al fine di trovare il meglio per ogni situazione.
A lui mi legò subito un forte sentimento di ammirazione per l’eccellente rapporto umano che aveva cercato di stabilire sin da subito, nonostante i vari gravissimi problemi interni all’azienda che vi erano allora. A lui si deve il fatto che l’azienda riusciva ancora ad avere un rapporto diciamo “umano” con tutti i distributori storici, specialmente quelli europei, quali l’Inghilterra, i paese scandinavi e l’Italia. Lui tesseva i rapporti, e li teneva saldi tramite il suo operare serio, preciso, mai banale e soprattutto con quella propensione nel dialogo di stampo filo occidentale e non ottusamente come i suoi predecessori invece, a senso unico, ovvero sempre e solo esclusivamente dal punto di vista orientale e prettamente giapponese. Le sue scelte erano sempre ponderate e bilanciate. Proprio per queste sue virtù innate non poteva certo andare d’amore e d’accordo con chi invece in testa all’azienda, continuava, perseverava in azioni controproducenti alla fine per tutti, per l’azienda e per chi ne distribuiva il marchio nei vari stati.
Shu ci mise poco davvero poco ad andare ai ferri corti ed alle mani quasi, con chi ostinatamente faceva il male dell’azienda. Per due lunghissimi anni Shu combattè contro scelte inopinate, ottuse. Scelte che portarono nel breve volgere ad un totale capovolgimento dell’azienda. Ma Shu, non faceva trapelare nulla. Non almeno con me. Io intuivo ad ogni incontro che avveniva con lui e con il vertice aziendale che lui faceva una fatica boia, che mandava giù rospi enormi, che mordeva il freno. Ma le mie intuizioni tali rimanevano.
Shu elegantemente cercava di rappacificare sempre gli animi, cercava con sforzi sovrumani di non fare cadere in terra cento anni di storia dell’azienda. Ma invano.
Un giorno mi scrisse una mail privata dicendomi che aveva rassegnato le dimissioni.
Mi elencò in modo coinciso una serie di situazioni che lo avevano portato ad una irrevocabile decisione.
Un lungo silenzio dopo quella mail, ed il buio in un azienda già asfittica per idee e proposte. Senza Shu mi sentii perso.
Poi di colpo dopo cinque mesi ritornò. era stato convinto a ritornare in Matsuzaki dal titolare il quale con il capo cosparso di cenere lo convinse a rientrare per tirare di nuovo le fila di un’azienda bisognosa di risorse umane quali quelle di Shu.
Ma le ciambelle non escono tutte con il buco e Shu rimase in azienda poco più che una settimana. Il suo scontro con il titolare fu di una violenza assoluta. Nel vero senso della parola. Gli mise le sue sante mani addosso e gli aggiustò un paio di cazzotti in pieno viso. Dopodiché si chiuse per sempre alle spalle la porta della sempre più disastrata situazione aziendale e se andò, per non farci ritorno mai più.
Mi avvisò dell’accaduto e mi disse di stare all’erta. Nubi tempestose stavano arrivando anche ad occidente, mi scrisse. E puntualmente arrivarono. Il 2006 si rivelò come l’anno della fine del mio rapporto con Matsuzaki dopo tredici anni di durissimo lavoro da parte mia. Impossibile era proseguire ulteriormente con chi voleva travisare la realtà, impossibile era cercare di aggiustare un rapporto che l’azienda si ostinava a logorare, cercando di imporre scelte di qualità e di mercati a me sconosciuti. Non faceva per me e per la mia clientela.
Ed io stesso tracollai.
Fu allora che Shu mi tese la mano e mi aiutò.
Mi invitò a visitarlo in Giappone e così feci. In men che non si dica organizzò una task force composta da Sayaka segretaria storica, dimissionaria pure lei dall’azienda e Yoshizawa suo predecessore e esperto in materia di forbici di elevata qualità, da parte nostra, ovvero quella italiana c’era con me Mario Manelli mio socio storico ed io ovviamente. Una sola ventina di giorni per organizzare il nostro viaggio in Giappone ed eccomcial primo meeting al Palace Hotel in Tokyo. Il team italo giapponese era pronto!
Il planning organizzato da Shu consisteva nel visitare alcune tra le pochissime aziende artigianali di forbici per parrucchieri di elevatissima qualità rimaste in Giappone. Il resto delle storiche factory hand made ahimè o era scomparso o si era affacciato ad una produzione non più artigianale ma bensì ad una più economica e semplice fabbricazione a macchina di stampo solitamente cinese o pakistano. Cosa dalla quale stavo fuggendo! Non volevo certo passare dalla padella alla brace. Dopo anni di accurata distribuzione di forbici di elevatà qualità, scoprire di colpo che le cose ti cambiano sotto gli occhi, ti procura uno shock tale che quando ti senti proporre una produzione fatta a macchina e magari in Cina, ti si rizzano i capelli e scansi la cosa come la peste bubbonica.
Per cui la ricerca svolta da Shu, Sayaka e Yoshi si era in effetti ristretta a tre aziende rimaste sul suolo nipponico. Altre le avremmo comunque visitate giusto per capire quali realtà esistevano in effetti. Tutto questo avrebbe preso svariati giorni in giro per il Giappone, da Nord a Sud. Il tempo a disposizione dati gli impegni di ognuno doveva condensarsi in massimo quindici, venti giorni. Questo in parole povere fu il risultato di quella sera al Palace Hotel.
Il mattino seguente, salvo Sayaka che non ci seguì nel viaggio, partimmo. Appuntamento alla Tokyo Central Sation non distante dall’ hotel e un puntuale Shinkasen ci condusse verso uno dei tanti viaggi di quei giorni.
Fu così che iniziò un rapporto fatto di ore in treno, a volte silenziose, interminabilmente silenziose e dense di tensione, a volte invece più leggere, più amichevoli.
Shu mi introdusse alla filosofia buddista e scintoista, religioni prevalenti in Giappone, rendendomi per cui davvero piacevole il viaggiare vedendo pianure sconfinate di campi coltivati a riso ed i, che silenziosamente capivo sempre più determinati comportamenti giapponesi che altrimenti agli occhi occidentali abituati a comportamenti diversi, mai mi sarebbero risultati chiari. Yoshi invece parlava senza stancarsi mai di acciaio, di forgiature, di convessità, lo faceva con una competenza ed una passione smisurata. Due ottimi compagni di viaggio.
Stazioni, risaie, alberghi ed immancabili pranzi e cene a base di sashimi e dubbi che non si volevano mai sciogliere del tutto. Nulla che avevamo visto ci convinceva mai sino in fondo. Durante i meeting che tenevamo in ogni azienda qualcuno di noi aveva sempre da storcere il naso. Vuoi che una volta capitasse a me, oppure a Shu o a Yoshi.
Insomma avevamo visto molto, ma nulla ci aveva convinto per svariati motivi fino alla fine. Sembrava che il mio tanto agognato viaggio stesse prendendo una piega negativa ed io divenivo sempre più cupo e sfiduciato. I miei compagni di viaggio se ne accorsero ben presto e nonostante mi infondessero fiducia per l’appuntamento successivo, stavo iniziando seriamente a pensare se non fosse il caso di cambiare drasticamente un lavoro che in pratica mi ero quasi inventato molti anni prima, proponendomi caso unico in Italia, come venditore, distributore mono mandatario , di un marchio di forbici di alta qualità artigianali giapponesi che portai ad essere leader indiscusso di mercato. I giorni passavano, i viaggi continuavano, ma il team si stava facendo prendere dallo sconforto.
Per una decina di giorni non trovammo nulla che ci piacesse.
Poi, poi.
Una sera arrivammo a Niigata. Una sera da lupi. Un freddo boia. Neve alta.
Appuntamento nella hall per il mattino dopo.
Quello era l’ultimo appuntamento del planning, inutile dire che mi ci ero aggrappato con tutte le speranze rimastemi. La notte fu un inferno. Causa una brodaglia di pesce terribile, causa i mille dubbi che mi assalirono, ma in pratica non chiusi occhio.
Il mattino dopo Shu, fresco come una rosa ci aspettava nella hall.
Shu aveva a quell’epoca un’età che come per tutte le persone di quel luogo é stramaledettamente difficile interpretare. Una buona cinquantina, portati su un corpo atletico ed una mente sempre vispa, attenta, presente. Shu mi sorrise, come faceva tutte le mattine. Yoshi con il solito inchino di saluto, ben rasato e nell’immancabile divisa da lavoro composta da giacca e cravatta, cercava di capire il mio umore, che non era affatto pessimo nonostante la notte insonne, ma era invece ansioso, dubbioso.
Chiamammo un taxi, arrivò, puntuale come tutto in Giappone. Divisa d’ordinanza e guanti bianchi e cappello. Una faccione simpatico e di stampo mongolo. Ci avviammo ma dopo poche centinaia di metri il tassista si arrestò e usando un telefono a cornetta, sì a cornetta, nero, chiamò la centrale dei taxi perché non riusciva a trovare l’indirizzo dell’azienda che dovevamo visitare. Qualche breve parola al telefono e poi si rivolse a Shu, gli spiegò che dalla centrale avevano telefonato in azienda per farsi dare maggiori informazioni circa l’indirizzo e specificando che c’erano visitatori per loro, ma come risposta ottennero che nessuno ci stava aspettando come invece era nostro preciso convicimento.
Sgomento. Mi prese un forte, fortissimo sgomento.
Balbettai qualcosa a Shu del tipo che ero sgomento, che ero sorpreso, che non capivo cosa stesse accadendo di preciso. Shu allora disse al tassista di portarci in azienda se gli fosse stato quantomeno indicato dove si trovasse, il mongolo eseguì, con i suoi guanti bianchi e la sua cornetta nera, il taxi procedette verso l’ultima mia speranza di tornare a casa con qualcosa di concreto.
Quando mi trovavo in Italia, Shu si prese la briga di spedirmi alcuni scatti riguardanti le forbici che poi avrei visto nelle varie aziende del futuro tour del team, le uniche veramente degne di attenzione erano sinceramente quelle che stavamo andando a vedere. Da qui il mio sgomento nel vedere rifiutato l’appuntamento fissato dal team di Shu, che con duro lavoro telefonico aveva preso ogni appuntamento, cercando di farlo coincidere con i nostri spostamenti tramite treno. Inoltre mi tornavano alla memoria gli scatti fotografici riguardanti le forbici che in quel momento mi parevano sfuggire di mano, ma che si trovavano a poche centinaia di metri da me.
Arrivammo all’azienda.
Fummo accolti subito freddamente, nessuno ci dissero, ci aspettava ne tantomeno voleva incontrarci.
Sempre più costernato mi aggrappai a Shu, alla sua forza, alla sua saggezza.
Poi di colpo arrivò Lui.
Il Maestro, Shigeru.
Con pochissimi convenevoli e con fare sbrigativo ci fece accomodare e si mise con fare quasi distratto ad ascoltare Shu. Ci scrutò solo inizialmente, poi i suoi occhi, la sua attenzione si spostò solo su Shu, che prese la situazione in mano.
E lì assistetti al capolavoro di Shu.
Con calma e mantenendo un sangue freddo invidiabile di fronte ad una situazione ostile, Shu si mise a spiegare il motivo della visita e dell’interessamento verso le forbici che avevo manifestato. Sperticò lodi sulla bontà del mio lavoro svolto come distributore esclusivo di una famosa azienda che seppure concorrente aveva goduto di prestigio in Giappone e in Europa,in special modo in Italia, primo mercato mondiale come distribuzione qualitativa e numerica. Ma il Maestro pareva indifferente alle parole di Shu. Shu allora lo fissò negli occhi, ancor più. Il suo tono divenne quasi sommesso, impercettibile. Come il pifferaio magico pareva emettere suoni convincenti non da un flauto ma direttamente dalla sua bocca che altro non era che il suo cuore stesso che parlava. La sua voce sempre più bassa conquistò in qualche modo il Maestro. Il quale si sciolse un poco. Chiamò qualcuno e si fece portare alcune forbici e diversi meccanismi. Ce le mostrò.
Io rimasi quasi senza fiato!
Le forbici erano se possibile ancora più interessanti di quanto già ritenevo avendole viste in fotografia.
Il peso consistente, il perfetto “colore” dell’acciaio, la morbidezza delle lame. I meccanismi all’avanguardia. Chiesi di esaminarle e mi fu concesso. Una volta nelle mie mani non ebbi dubbi. Quelle forbici dovevano essere mie! Stessa cosa disse Mario. Con il mio ginocchio colpii la gamba di Shu, che sorpreso mi guardò. Capì Shu, capì immediatamente cosa significava quel colpo che gli diedi sotto il tavolo. Con gli occhi che si socchiudevano mi fece capire di avere capito, di avere colto la mia eccitazione e la mia approvazione, ma con il suo viso saggiò mi lanciò anche una sorta di suggerimento, mi invitò alla calma. Non era ancora finito il discorso con il Maestro ed io mi ero fatto prendere dalla bramosia tipicamente italiana, che invece in quella latitudine non sortiva nessun buon effetto, anzi forse il contrario.
Io assistevo e sudavo, freddo. Ero un groviglio di nervi intrecciati e tesi al massimo, non capivo cosa stesse accadendo, non capivo se qualcosa stesse volgendo a mio favore oppure se me sarei tornato in Italia, sconfitto, a mani vuote.
Allora fu come se tutto si fosse fermato e tutto girasse lentamente. Shu continuava con il suo tono basso a parlare, a spiegare, a convincere. Con un metodo, con un sistema tipicamente orientale, saggio, pacato, Shu ricondusse sui giusti binari quello che sembrava un treno destinato a deragliare.
Il Maestro unì le mani e le fece schioccare violentemente emettendo un rantolio, che altro invece non era che un ordine ben preciso.
Arrivò il tè.
Ed io mi sciolsi. I nervi tesi si lasciarono andare. Guardai Mario, anche lui tirato come una corda di violino.
Shu mi aveva insegnato durante il tour che l’arrivo del tè aveva un significato ben preciso. Significava che gli ospiti erano ben accetti e che si poteva proseguire su discorsi positivi. Ci era capitato diverse volte ormai ed io aspettavo, bramavo quel momento che felicemente arrivò.
Allora parlai io, presi il coraggio a due mani e parlai con il Maestro. In italiano gli dissi che le forbici erano meravigliose, che erano pezzi unici e che ero stupito di vedere una così elevata qualità, tanto ero convinto di avere distribuito sino a poco tempo prima il meglio esistente. Tenevo le forbici in mano e sentivo l’acciaio che mano a mano si scaldava e fissavo il Maestro negli occhi. Non so bene, non so davvero bene cosa accadde in quel momento, ma il Maestro senza scomporsi, sorrise, con gli occhi sorrise.
Io ero incredulo, per più di mezz’ora Lui era stato un pezzo di ghiaccio, un tutt’uno con un lastra di acciaio indeformabile. Senza emozioni, privo di qualsivoglia cenno di approvazione o negazione. Ma Lui sorrise. Nel suo sorriso c’era comprensione, non tanto di quello che dicevo, visto che parlavo in italiano e Lui non ne capiva certamente una sola parola, ma di ciò che continuavo ad esprimere con gli occhi, con il corpo che vibrava di energia pura e positiva. Ne era felice, lo capii.
Stremato smisi, dopo un paio di minuti al massimo, di tessere le lodi delle sue forbici. Le riposi sul piccolo e basso tavolo di legno intarsiato. Lui fece cenno di bere il tè, amaro , giallo, giapponese.
E cosi tutti facemmo, osservando un silenzio liturgico.
Allora prese la parola Lui.
Parlò con Shu, ma guardandomi fisso negli occhi.
Riassunse in poche parole tutto quanto Shu gli aveva detto in mezz’ora di fitta ed intensa conversazione e spiegazione del mio progetto.
Si disse interessato al famoso progetto bmac che Shu gli aveva precedentemente illustrato e che consisteva nell’unione della sua produzione artigianale alla nostra esperienza di vendita e marketing. Unire le due cose avrebbe portato benefici ad entrambi, a lui perchè da parte nostra c’erano chiare idee di new brand management ed a noi perché da parte sua c’era di certo il meglio della produzione su scala planetaria di forbici artigianali di elevatissima qualità per parrucchieri.
In quell’occasione Lui, il Maestro, pronunciò la famosa frase si può fare. (vedi articolo,si può fare… ndr)
Shu, stremato, mi sorrise.
Il suo viso pareva invecchiato, stanco. Si tolse gli occhiali lentamente, portò la mano destra agli occhi e rimase con l’indice puntato all’occhio sinistro ed il pollice al destro. Rimase così a lungo, perlomeno a me parve un momento interminabile. Il capo leggermente chino, in silenzio. Gli altri chiaccheravano ormai quasi amabilmente, io invece rimasi concentrato su di lui, su Shu.
Shu aveva compiuto il suo capolavoro. Ne era perfettamente cosciente, sapeva di avermi consegnato nella mani del migliore artigiano giapponese di forbici per parrucchieri di altissima qualità.
Si riprese. Senza indossare gli occhiali, mi guardò. I suoi erano umidi, era commosso!
Gli presi una mano e gliela strinsi con le mie due, facendo un leggero inchino con il capo.
Il viaggio di ritorno in treno verso Tokyo fu felice, molto.
Festeggiammo in Ginza, in un ristorante posto al primo piano di una laterale, che quella sera emetteva fumo dai tombini.
Sashimi di tonno, birra giapponese, un buon pacchetto di sigarette.
Shu, Sayaka e Yoshizawa sorrisero tutta la sera, leggeri, sinceri, belli.
Ci lasciammo con la promessa di rivederci ogni anno, allo stesso ristorante, ogni volta che fossimo scesi in Giappone per recarci in bmac a Niigata.
Cosa che puntuale avvenne.
Santo cielo, che gente i giapponesi, che gente. Fantastica, di parola, onesta.
E che uomini che annovera!
Uno di questi Shu, é un uomo straordinario, uno dei miei uomini straordinari!