Facile ora parlare che il mostro é caduto. Facile.
Perlomeno a me risulta facile.
Non é stato così per 26 lunghi anni invece.
Malles non era solo la caserma, Malles era ben di più. Vi sono dei luoghi che portano già nel nome qualcosa di forte, di particolare e Malles era uno di questi rari posti che evocano memoria, che incutono rispetto, che si odiano o che si amano.
Malles era molto di più della caserma stessa. Era un luogo che ancor prima di arrivarci già diceva molto nel suo nome, forte, secco, quasi un ordine impartito. E ogni giovane bergamasco che si apprestava alla naja ne aveva una paura folle di arrivarci.
Io ci arrivai negli inizi del dicembre 84, che poi fu quell’inverno disastroso di neve in Bergamo, mentre lassù faceva solo un gran freddo. Il mio scaglione 9°/84, compagnia 109, incarico 41/a, marconista conduttore. Dopo un car accelerato a Merano arrivai alla caserma di Mals in Vinschgau, una freddisima mattinata, passata sul cassone di un Lancia a rimirare campi infiniti di mele ed a chiedermi cosa mi riservasse il destino.Passai Silandro convinto che fossimo arrivati, ricordo ancora benissimo il suo altissimo ed affusolato campanile, ma la strada saliva ancora di più e mi chiedevo se tutto questo fosse umano.
Una volta arrivati ci alzò la sbarra l’ufficiale di giornata in impeccabile divisa con fascia blu. Fuori ebbi appena il tempo di leggere qualcosa che diceva Wackernell e notare una zampa di aquila enorme su sfondo rosso.
Poi l’incubo.
Giorni di follia i primi, giorni durissimi. Nonni devastati dal desiderio di ricevere i “propri nipoti” che finalmente dopo otto mesi di lunga attesa erano arrivati. Noi le prede, loro i cacciatori, i padroni.
Quattro mesi incredibili, difficili da raccontare nella loro difficoltà, ivi compreso due campi invernali da me svolti. Mi ricordo di un tale nonno di nome Goglio, era della Val Brembana come me e mi prese in simpatia, aiutandomi non poco nell’affrontare marce, campi, poligoni di tiro a Petesettes con la neve quasi perenne che ci faceva affondare sino al cavallo. I suoi consigli erano dettati dall’esperienza e mai tanto bene accetti, quando mi consigliava di usare i mutandoni di lana o un paio di calze doppie per non fare crescere vesciche. La conoscenza con i mortai da 81 e 120, i muli di cui Rocco era leader indiscusso. Fal e Garand da smontare e rimontare a occhi chiusi. Presi i primi gradi di caporale con ancora i miei nonni in attività. Poi anche i nonni se ne andarono e da nipoti passammo “troie” per quattro mesi nei quali in pratica non conti nulla, ti fai solo gli affari tuoi. E finalmente il giorno del passaggio fatidico, la promozione naturale con lo scorrere del tempo, a nonni. Manco il tempo di divenirlo che fummo chiamati tutti a prendere il nostro zaino e recarci in piazzale per quello che fu il passaggio da ragazzi a uomini. In Val di Stava i bacini di una miniera ruppero gli argini vomitando fango sull’abitato di Stava.
Tutta la caserma era già pronta in men che non si dica, in ordine , nel piazzale, zaini affardellati d’allarme, caschi, pale, il tutto in perfetto ordine maniacale ed un silenzio di tomba, erano circa le tre del pomeriggio quando il battaglione alpini Tirano si avviò verso la tragedia. Mi recai anche io ma a metà viaggio il mio tenente mi diede il contrordine. Dovevo ritornare in caserma per accogliere i nipoti che sarebbero arrivati il giorno seguente, con me rimase Savoldelli, di Rovetta. Con i gradi di caporal maggiore ricevetti oltre trenta ragazzi imberbi, spaventati e come un nastro che si riavvolgeva mi rividi al primo giorno quando arrivai anche io alla fureria della 109 per presentare i documenti. Dopo giorni tornarono tutti gli altri del mio scaglione, invecchiati,sporchi di fango sin nelle orecchie e con la morte negli occhi. Molti di loro ebbero l’ingrato compito di estrarre cadaveri, molti, dei quasi trecento, che la tragedia provocò.
Un campo estivo sul Cevedale, ci portò verso un tiepido autunno denso di colori meravigliosi e con un ultimo campo Nato a dieci all’alba.
Poi fu la mattina dell’addio. Meno che per due miei grandi amici, Bonetti da Carpenedolo e Bassani da Groppello d’Adda, scontarono 15 di punizione R, ovvero una punizione da scontarsi alla fine della naja, quando tutti i tuoi se ne vanno e rimani come un fantasma a girare per una caserma che cambia come la muta di un serpente.
Questo l’anno in breve, molto in breve, ma non voglio e non posso dimenticare Diego Benedetti di Marone deceduto in pratica durante un turno di guardia nel gelido gennaio del 1985. Una meningite fulminante lo portò lontano da tutti noi e ancora nelle orecchie odo il dolore della mamma che cercava notizie presso tutte le mamme di noi tutti circa un episodio mai chiaro del tutto.
Ora é facile parlare, ma per anni sono rimasto vittima della sindrome di Stoccolma. A Malles ci sono tornato parecchie volte, sempre da solo e mi prendevo di solito due giorni per starmene all’Hotel Panorama e da li godere di una privilegiata vista sul Cevedale, e sull’Ortles e ovviamente su di lei, sulla caserma.
L’ultima volta a metà luglio del 2010.
Sapevo già della demolizione e proprio per questo motivo ci andai, per vedere per l’ultima volta negli occhi “lei”.
Abbandonata, ormai inerme, rassegnata. Incapace di fare mal ad alcuno, la caserma era come un mostro ferito. Chiesi ad un poliziotto di poterci entrare ma lui mi rispose che il portone principale era chiuso ed un po tutte le entrate, protette da grate di ferro. Trovai nel lato sud una finestra divelta, ci entrai con un grande balzo. Purtroppo si fermava dopo un lungo corridoio ed alcune stanze di secondaria importanza, poco prima del locale del barbiere e dello scalone che portava alle camerate, un muro che non conoscevo era stato eretto mi spiegò poi il poliziotto gentilmente, all’epoca dei profughi slavi che il buon governo Occhetto ebbe la grandissima intuizione di spedire e ospitare lassù. La caserma ne uscì malconcia, devastata come da un orda di barbari.
Volevo più di ogni cosa salire di nuovo alla camerata, al mio letto il numero uno della compagnia 109, volevo rivedere la fureria della quale ero stato custode attivissimo per 10 mesi. Ma nulla, un muro, uno stupido muro mi portò via l’illusione di potere rivedere quantomeno nella mia immaginazione, i corridoi della camerata tirati a specchio, le docce che mai erano di acqua calda per i nipoti, i bagni con le loro turche.
Nulla.
Mi ritirai quel giorno di luglio vicino alle salmerie in fortissimo degrado e piansi.Esattamente come la mattina del congedo. Con uno sforzo immaginario incredibile finsi che tutto intorno a me era ancora pulito, lindo, in ordine. Finsi di vedere gli alpini che correvano sul piazzale “perchè scottava”, finsi di vedere l’alzabandiera nel piazzale alle otto in punto con il gelido vento da Nord che spaccava le croste sui lobi delle orecchie del mio nonno C.le Maggiore Rupercalli, croste dovute al freddo che ogni mattina si rompevano e nel giro di pochi secondi si ricongelavano di nuovo. I guanti bianchi del tenente Agnesio che passavano ad ispezionare le barbe ed i capelli, rigorosamente in ordine, perfetti. Il capitano Finocchio tanto temuto. Le borse valigia subito saccheggiate dai nonni che si accaparravano vestiti nuovi da presentare il giorno del congedo onde evitare di doverli pagare. I turni del PAO. Le dolci, interminabili passeggiate mano nella mano nei prati in autunno con Caroline, una ragazza di Malles che ebbe unica, tra le pochissime, il coraggio di innamorarsi di un alpino, di uno straniero. Il lago di Resia ed il suo campanile sommerso, ghiacciato interamente in inverno e ventilato e di colore verde d’estate.
Intorno a me invece solo degrado. Macchine arrugginite, barbecue improvvisati, sedie divelte, vecchi frigo dei gelati quasi in mezzo al piazzale e sterpaglie, sterpaglie. E siringhe e ragazzi del luogo che a detta del poliziotto passavano il pomeriggio nel vecchio centro radio, ora luogo a loro appositamente dedicato con non so quale preciso indirizzo propedeutico, semplicemente a rollarsi una canna o a schiamazzare in ladino.
Il mostro mi sorrise, prendendomi per mano.
Mi accompagnò verso giorni migliori.I giorni vissuti da me e da migliaia di ragazzi che quella caserma prima la odiarono, finendo poi invece con l’amarla. Una lezione di vita per tutti.
Oggi, in periodi così difficili, sarebbe un faro, una sicurezza per tutti quei ragazzi che invece mai e poi mai sapranno ubbidire o impartire ordini.
Hanno deciso di abbatterla, travolgendo e stravolgendo le vite di chi ci passò anche più di un anno della propria vita, segnandola in modo indelebile.
Nulla sarà più uguale ora che lei non esiste più.
Ed io non ci salirò mai più.
Sarebbe troppo forte il dolore di non vederla più in piedi. Solida, volta con il petto squarciato verso Nord, verso i venti glaciali dell’inverno, oppure mite con quel colore giallastro che in autunno gli dava persino un volto romantico, materno.
Addio mia carceriera, addio. Libero sono, ma triste profondamente. Un pezzo del mio cuore e della mia vita si sono sgretolati sotto i colpi di maglio dei macchinari che ti hanno definitivamente cancellata.
C.Le Maggiore Luca Masper compagnia 109 “Tiret de part che pasi” 9° scaglione 1984, Battaglione Alpini Tirano.